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Tra le ripide discese dei monti scuri che proteggevano la città di Genova, la luce accecante dell’alba si prendeva il suo spazio. Con tanta forza da vincere ogni giorno sulla fitta ragnatela di aghi di pino; con così tanto vigore da riuscire a far rigirare nel letto tutte quelle anime addormentate.
Il tiepido calore scaldava le banchine del porto, perdendosi per un attimo nella fitta foschia bianca e salmastra del caligo che ricopriva il lato nord del porto. Passava sotto i ponti, illuminava le calate e finalmente andava a tuffarsi in mare.
Con il blu si lavava la faccia prima di iniziare la giornata e poi, col viso tirato dalla salsedine si specchiava nelle teglie metalliche che stavano per essere appesantite da lingue d’impasto unto, ancora tiepido del calore delle mani che con il buio l’avevano dolcemente maltrattato.
Le dita affondavano nell’impasto creando dei buchi, mai casuali, gesti rapidi ed attenti, tramandati da generazioni, creavano l’alloggio perfetto per accogliere acqua ed oro liquido di Oneglia.
Il forno che si era lentamente animato era pronto ad aprire la sua bocca per cuocere e terminare quell’opera d’arte.
Chicchi di sale, come gradine, cadevano su di essa prima di entrare in forno.
La bocca aperta, il suo cuore scoppiettava e bruciava lentamente.
La luce dell’alba tendeva il suo braccio al profumo della focaccia, allungavano entrambi la mano, l’uno verso l’altro.
La luce con il braccio infilato nella bocca del forno, fletteva il bicipite e con forza tirava fuori il profumo che, stremato, si sgranchiva le gambe, piegava il collo, si metteva in ordine i capelli e volava in alto. Inebriando le case, i vicoli e il porto, fino ad arrivare alla barchetta del caddraio che portava la colazione ai camalli.
Da una piccola finestra dei vicoli, gli occhi di Andrea assistevano annoiati alla lotta tra la luce ed il buio.
Ogni giorno aspettava che l’alba annebbiasse le sue paure, che la notte gli parlavano come fossero amici di una vita.
Come quando, davanti ad un bicchiere di vino, ci si raccontano vecchie storie passate, facendo affiorare in superficie ricordi che, da tempo, si erano ancorati su un fondale fangoso.
Ogni mattina una piccola gatta nera passava davanti alla sua finestra, ogni mattina puntuale come un orologio svizzero si fermava qualche secondo a fissarlo. Sembrava ricordargli che fossero entrambi soli, entrambi vagabondi. Eppure, ogni mattina, entrambi si tenevano compagnia per qualche istante. Entrambi, in quell’istante, nel mezzo del loro errare senza meta si sentivano a casa.